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Nota di Lettura di Michele Nigro sul "Monologo dell'angelo caduto"

Chi ha amato gli “angeli berlinesi” di Wenders e apprezzato il romanzo ispiratore di Périer, molto probabilmente troverà in questo breve “poema integratore” di Giuseppe Carlo Airaghi – “Monologo dell’angelo caduto”, Fara Editore (2022) – interessanti elementi aggiuntivi a un solitario ed eterno “discorso interiore” che si fa carne mortale e temporale. Disinteressato alla forma poetica classicamente intesa, l’autore con onestà e chiarezza sceglie di assecondare il linguaggio quotidiano di un angelo – il Damiel infatuato della bella acrobata – caduto in terra per amore e non per uno strano incidente divino.

Diviso in due parti, a loro volta suddivise in strofe composte da terzine, si tratta di un monologo non concepito per giustificare la scelta “umanizzante” dell’angelo, ma per confermarla con più forza a distanza di tempo: c’è bisogno di una descrizione non auto-consolatoria dei fatti, dei desideri coltivati prima della caduta. “Scegliere un prato dove sdraiarmi / a guardare il cielo capovolto / come fosse l’inizio del mondo. / Sentire per la prima volta il fiume / trascinare una muta corrente…”. In quel ‘prima volta’ lo stupore di una rinascita a vita mortale, nonostante l’esperienza e la saggezza dell’eternità volontariamente abbandonata (“… meravigliarsi per un mondo…” […] “… una pura esperienza di vita…”). Non bastava più l’esserci in forma angelica, un consolare gli umani intangibile e vacuo (“… Poggiare la mia mano sulle spalle / non era sufficiente a rincuorare…); avanzava prepotente l’esigenza di un vissuto in prima persona, e non più al riparo di un comodo e noioso spiritualismo (“… da quella mia incolmabile distanza…”). Da qui l’urgenza di una caduta in terra, quasi un disperato tentativo di recuperare il tempo non vissuto sulla propria pelle: “Ho barattato una immutata eternità / per la sete di un bacio ricambiato, / per un bicchiere di vino, per la curva / irripetibile di un collo di donna…”. Non più ascoltatore passivo e impotente, seppure compassionevole e partecipativo, ma limitato e vero, vulnerabile, contestualizzato e finito. Come gli altri, diretto anch’egli verso la morte. Occuparsi della propria circoscritta esistenza e non sentire più il peso e le voci dell’intera umanità (“Voci, voci, voci, liberarmi / da quelle voci…” […] “Stanco di assistere senza parteggiare…”).

Nella settima strofa della prima parte, forse il tentativo di un manifesto poetico per angeli caduti o in procinto di cadere: come nell’immaginario di Periér, forte è l’analogia tra poeta e angelo osservatore di mondi. Ma a che serve osservare la vita degli altri, esserne profondamente partecipi se non si può nominare quella stessa esistenza, il poter “Dire cosa ho imparato oggi”? Un invito a tutti quei poeti in cerca di vacue perfezioni metriche a scendere in terra, a farsi male, a farsi toccare dalla vita perché “Non è compito della poesia / consolare il male del suo male. / Il compito semmai è nominarlo”. Ed è caldissimo e attuale il tema sociale della poesia consolatoria (e farmacologica!) cavalcata da alcuni autori, che per questo suo saperci fare con i malanni altrui, vende migliaia di copie! I poeti come gli angeli di Wenders a un certo punto sentono il bisogno di palesarsi, di materializzarsi (“… Le nostre parole non esistono / per il mondo senza l’accoglienza / di un ascoltatore…”). Il poeta che scende in terra, capisce cose che il poeta laureato e perfezionista forse non concepirà mai: “Oggi io / conosco quello che nessun angelo / può capire: ammirare l’acrobata / volteggiare…”.

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“qualcosa di buono è rimasto” nota di lettura di Alessandro Ramberti su "La somma imperfetta delle parti" Ladolfi 2021, Prefazione di Giuliano Ladolfi

Come abbastanza spesso amo fare, inizio il mio viaggio in queste pagine di poesia, a ritroso: “… Ho il fondato sospetto / che al ragazzo che sono stato / non sarebbe piaciuto l’adulto che sono” (p. 122). Così si chiude questo intenso inventario di incontri, eventi, sensazioni, riflessioni. A p. 111 troviamo questa dichiarazione: “Lasciare passare tutto sottotraccia / evitare attriti che inneschino incendi / nella consueta meditazione irrisolta / tra le verità che sono in grado di recitare / e quelle che non posso pronunciare”. Qualche pagina prima (alla 106) troviamo questi versi dai rimandi paolini: “Se non confidassimo cocciuti / in ciò che ci ostiniamo a definire amore / saremmo campane senza suono”. Come anche questi tratti da Quinto frammento (p. 91): “… finché perdurerà il rimorso / ci tormenterà il peccato”. Mentre un esplicito riferimento al testo sacro lo troviamo ne La notte di San Lorenzo (p. 83): “È inutile che precipitino stelle, / nessuno davvero crede / alla realizzazione dei desideri. // La notte è spietata e ottusa / come certi passi della bibbia, / imbarazzanti persino per i preti”. Ed evidenti echi del Qohèlet li abbiamo ne Le nuvole (p. 81): “Le nuvole non sono meno vane / di noi che le guardiamo disfarsi. / Solo più veloci e discrete come / l’odore di questi fiori sfiniti / recisi nei vasi.”

Il canzoniere è scandito da struggenti immagini sapienziali: “Lo sgombro piazzale ha il respiro / delle notte spalancate sul cielo / e i lampioni si mangiano le stelle” (Insonnia, p. 76); “Certo non sarà semplice nominare / (…) / tutto lo sforzo profuso per approdare / a questo bordo precario del tempo” (La persecuzione della memoria, p. 65); “I ragazzi confidano nell’assoluto / senza la coscienza di una fede, / abiurano il futuro e passato, / credono eterno il presente” (I ragazzi, p. 60); “Smussare il filo tagliente dell’arma, / rendere opaca la superficie, / gli avvenimenti indefiniti, / i personaggi interscambiabili / con la solita scusa dell’universalità” (Promemoria #2, p. 59); “La somma imperfetta delle parti / porta a un totale che non basta” (dalla poesia eponima, p. 54); “A noi incapaci di eroismi / non rimane che scavare nei torti dei morti / per dissotterrare le parole spolpate, definitive” (25 Aprile, p. 49); “Persuaso che omettere e tacere / siano lo stesso accidente o destino / visto venire di fronte / o allontanarsi di spalle” (Precauzioni ed avvertenze, p. 43); “L’ultimo scompartimento del treno / è luogo riservato agli ultimi, / (…) / in bilico tra la sopravvivenza, la rivolta / e la normalità anormale / di uomini dal destino segnato / e uomini senza neppure un destino / a cui affidare il peso del corpo nel viaggio” (L’ultimo scompartimento, p. 22).

C’è un‘acuta capacità in Giuseppe Carlo di calarsi nel dettaglio, nell’anima delle cose (come ricorda Ladolfi nella sua empatica prefazione citando Simone Weil). Eccone qualche esempio: “I marciapiedi di viale Rembrandt / non conoscono la sotterranea pazienza del seme, / il suo desiderio di acque, / l‘ostinata ambizione di fronde e di frutti” (Viale Rembrandt, pp. 17-18); “Colpisce le viscere, / prima ancora che la ragione, / lo strillo animale dell‘ambulanza” (Lo strillo dell’ambulanza, p. 19). Così come c’è una carica spirituale, ovvero un rapporto con la realtà in cui ci troviamo sempre in cerca, desiderosi di risposte che sappiamo che sappiamo non potranno mai essere esaustive, perché noi stessi siamo domande in cammino (“Il poema del cammino” è la sezione conclusiva del libro di Airaghi), e dal cammino otteniamo risposte in fieri, passo dopo passo. E questo alimenta la nostra curiosità, è lo spazio della libertà che ci consente di “errare” ma, se siamo consapevoli de labirinto in cui gli eventi e le scelte ci hanno immerso, se  riusciamo a godere degli squarci di bellezza  che illuminano anche i percorsi più bui, accidentati e faticosi, se riconosciamo la nostra preziosa piccolezza… saremo allora in grado di apprezzare anche l’unicità degli altri, di percepire un mistero che avvolge gli incontri, un aura che profuma di gratuità i nostri gesti di attenzione ed empatia e alimenta quel trasporto disinteressato e decentrato che può essere un altro nome dell’amore (cfr. Il nido delle rondini, p. 21: “Il nido delle rondini stava / sotto il colmo del tetto, dirimpetto / alla mia finestra di ragazzo. / (…) / ‘I vicini hanno ucciso la primavera’ / scrissi sopra un quaderno a righe. // (…) / non ho mai perdonato / fino ad oggi, che ho veduto / giovani rondini costruire un nuovo nido / (…) / Ora che ricordato / posso finalmente perdonare.”

PS Il titolo di questa recensione è tratto da Le canzoni stonate, p. 63.

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“Studi stilistici” nota di lettura di Renzo Montagnoli su "Ora che tutto mi appare più chiaro" PuntoaCapo 2023

Quando ho occasione di leggere le opere che un autore via via propone ho anche l’opportunità di verificare come si evolve lo stile e così è capitato anche con Giuseppe Carlo Airaghi, un poeta che ho incontrato con una silloge, edita da Fara, dal titolo Quello che ancora restava da dire. E’ stata una piacevole scoperta anche perché come ho evidenziato nella mia recensione si tratta di un’opera che di primo acchito instaura con il lettore un filo di empatia, frutto, soprattutto, al di là del valore intrinseco delle poesie, della pressoché immediata comprensione, circostanza non frequente oggi specialmente quando il contenuto è particolarmente profondo. Successivamente mi ha incantato il Monologo dell’angelo caduto, una raccolta ben diversa dalla precedente, perché in questo poemetto c’è un’evidente ricerca di un nuovo percorso espressivo che sia in grado di andare ben oltre l’esternazione del proprio “io”.  Con Ora che tutto mi appare più chiaro c’è un ulteriore passaggio stilistico, peraltro a fronte di una eterogeneità dei temi svolti. In particolare ho riscontrato una ricerca visiva schematica volta a creare atmosfere e a esprimere riflessioni, come appare evidente nel Capitolo intestato Notti periferiche, laddove con i simboli di certe metropoli si evidenzia un’insoddisfazione esistenziale a cui fa riscontro, come palcoscenico, un degrado sociale (Al margine della lista delle immagini / appuntate per descrivere la notte / c’è una pozzanghera / folgorata dall’insegna di un bar / dove si inscenano / modesti calvari paesani, /…). E’ una tematica che ho notato nelle sue precedenti produzioni, ma che qui è esposta in modo capace di rendere tangibili determinate sensazioni. Dove però c’è un effettivo stravolgimento, più che stilistico concettuale, è con Autobiografia apocrifa. A tratti, come a creare un habitat poetico, c’è un certo afflato pascoliano, non fine a se stesso, ma ben raccolto e inserito in un discorso di cui la natura, nelle sue interazioni, è la vera protagonista ( Nel cortile lievita una parete / verde di gelsomino. Piantata / la primavera in cui di comune accordo  / decidemmo di sfidare la sorte. / Ospitò in estate un nido di merli, / incauti. I gatti di casa / non gli lasciarono scampo. /….) E c’è chiara ed evidente una corrispondenza fra paesaggio e sensazioni, come per esempio in Una nevicata annunciata (Sotto una nevicata annunciata / da un’avanguardia di luce e di gelo / cammino lungo il percorso pedonale / dove d’estate seccano al sole i fichi non colti / e le merde dei cani. / Calzo scarpe inadeguate. / Mi gela il freddo dei bambini /a cui piace il freddo sulla faccia, / il suono dei passi in frantumi, / e lacrime di vento sul bordo degli occhi. /….). Questa affinità fra natura, che come sappiamo non ha coscienza, e sensazioni è riscontrabile anche nel capitolo L’estate perenne, e quasi a sottolineare questa connessione vi è anche addirittura un’Elegia (All’ora di cena cominciavamo a bere. / Oltre la cornice della finestra / tutto il disordine della stanza / si manteneva a malapena in equilibrio / sopra i rami spogli del pino marittimo in giardino. /…).
Considerato l’esito positivo di Monologo dell’angelo caduto, Airaghi si deve essere chiesto perché non replicare, non tanto gli angeli, ma i monologhi, ed ecco allora i Monologhi di scena, niente di eclatante in verità, ma comunque un utile esercizio che probabilmente è venuto prima di quello ben più valido dell’angelo caduto.
Mi piacerebbe dire altro, soprattutto cenni su quei capitoli che non ho qui citato, ma ahimè il tempo è tiranno ed è necessario pertanto che arrivi a una conclusione.
Come già scritto c’è stata una variazione dello stile, più che altro un affinamento e anche una ispirazione che talora è frutto di studi pascoliani, talaltra, più moderna, ma meno frequente e ironica, ricorda per certi aspetti Bukoski, più presente questa, a mio avviso, in passato. In ogni caso, l’impressione che ho ritratto da questa raccolta è che per Airaghi  il poeta è sempre schiavo di se stesso, incapace di trovare una nota lieta dell’esistenza, vista invece come un progressivo sprofondamento nel nulla, come a dire che se dal nulla veniamo, nulla siamo e nulla diventiamo.
In parte sono d’accordo, in parte no, perché nel mondo l’unico essere pensante è l’uomo e sta a lui cercare e trovare un senso della vita. Ciò nonostante, credo  che nei versi di questa raccolta sussista uno spiraglio per una salvezza dell’essere umano, perché altrimenti non si spiegherebbero i riferimenti, altamente espressivi, alla natura.
Da leggere.

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Motivazione della giuria per assegnazione del primo premio per libro di poesia edita premio "Vito Moretti" 2023

La raccolta di Giuseppe Carlo Airaghi  “Quello che ancora restava da dire” è un testo singolare che si caratterizza per la maturità ideativa e per la scelta linguistica.
Il poeta tende a rappresentare le cose del mondo da prospettive e punti di vista inusuali, si confronta con temi quotidiani e universali, scopre un orizzonte dove trova i propri passi e intuisce le proprie motivazioni, esplorando la natura, il mistero del tempo e dello spazio, gli eventi della vita, per intuirne il senso.
In qualche modo il poeta segue un percorso dialettico in cui si incontrano il mondo della luce e quello dell’ombra, la realtà del quotidiano e la lontananza del sogno, il bello dell’esistere, il buono dell’amore e degli affetti, ma anche le incognite, le paure, le piccole e grandi smentite del disagio e dei rapporti umani.
La scelta linguistica è quella della chiarezza e del lessico condiviso. Il lettore, quindi, può compiere agevolmente un vero e proprio viaggio, un itinerario tra le suggestioni occasionate dalle circostanze quotidiane del vissuto, dai sentimenti che quelle stesse circostanze ripropongono alla memoria e che tornano a dire e ad assumere i volti e i nomi della propria realtà di uomo.

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NOTA DI LETTURA di Massimo Ridolfi

Devo chiarire che questo lungo percorso di ricerca intrapreso mi pone – che sia chiaro! – nella posizione che può essere solo quella dell’allievo – curiosissimo allievo, certamente, ma pur sempre un semplice allievo che scrive e dice da qui, da queste pagine e da queste aperte letture che via via si susseguono; direttamente da questo dove, che arriva virtuale ma che è fisico, perché non c’è materia che sia più solida della parola e della voce umana (che sia chiaro anche questo! prima di proseguire); allora da qui non può che esserci alcuna intesa lezione possibile, ricerca che proprio alla lezione vorrebbe sfuggire, e nessuna intenzione di insegnare ma solo di ascoltare: da qui si cerca solo di ascoltare e di cercare di capire, e per tutto questo e per il nulla di tutto questo quindi da questa parte non troverete alcun maestro, e sarebbe ancora più inutile mettersi a cercarlo. Una domenica (era il 6 febbraio 2022, durante la trasmissione Che tempo che fa, N.d.R.) sono stato molto colpito da come Papa Francesco ha interpretato, con semplicità, quindi con saggezza, il concetto di preghiera: “Pregare è quello che fa il bambino quando si sente limitato, impotente.” ha detto che è come richiamare l’attenzione, l’aiuto, del padre e della madre di quel bambino limitato, impotente. Ecco, credo che sia molto vera questa immagine, perché nella preghiera ci si fa tutti piccoli, stretti da una necessità che non sia solo fisica ma che tenti un momentaneo distacco terreno; immagine alla quale però aggiungo che nessuno sa cosa sia una preghiera come lo sanno i poeti, perché è sempre una preghiera, una invocazione all’ascolto, che si fa quando si scrivono versi, che è una attività verticale, che discende per tentare una possibile ascesa. Quindi è con questo spirito oggi, come ogni volta, che mi avvicino alla poesia, alla lezione di Giuseppe Carlo Airaghi – che nel suo ultimo lavoro in versi, Monologo dell’angelo caduto, Fara, 2022, pare volerci insegnare la parte dell’angelo – per imparare il suo “sguardo non addomesticato”, che definirei ecologico, cioè che mira alla conservazione di ciò che vede; quindi cerco nel suo dettato una visione altra, nuova delle cose che ogni giorno contribuiscono alla esistenza terrena, che ci riguarda tutti immancabilmente, dentro questo momento che chiamiamo Vita. E allora guardo con attenzione dentro questo scorcio che Airaghi propone per riconoscere innanzitutto me stesso, un io comune che tramuti in noi, e mi ritrovo nella semplicità compositiva di questo poeta, nel suo proprio dire che raccoglie con il suo sguardo il concreto ma variabile sospiro dell’esistere, che ci fa uguali e fragili tutti, dove tutti si è chiamati a giocare, a recitare la propria parte, “sedotti dall’illusione che si tratti di un gioco / che potremo interrompere.”

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Nota di lettura di Vincenzo Capodiferro a proposito del "Monologo dell'angelo caduto"

Monologo dell'angelo caduto è un’opera poetica di Giuseppe Carlo Airaghi, pubblicata da Fara Editore, Rimini 2022. Come si legge nella Prefazione, di Alessandro Ramberti: “Lo stile di Airaghi ha un nitore che ci rimanda ai cieli ed alle prospettive di Piero della Francesca, la forma esatta e luminosa del suo dettato varca il confine fra visibile e invisibile, fra emozioni angeliche ed umane. È come se le inquadrature fossero sempre sul punto di muoversi, elasticamente soggette ai flussi e riflussi della realtà e del nostro sguardo, che può focalizzarsi, ora su un particolare, ora su un altro’. È bella questa immagine del poeta-angelo, memore dei tempi stilinovistici, e più vicino a noi al Montale, che disse: “Tutte le cose portano scritto più in là”. Così ci troviamo dinanzi a una sperimentazione di poesia metafisica, o poesia del confine. Il poeta-angelo riporta i versi dei cori angelici in una dimensione discorsiva, più umana, riporta la visione beatifica nella dimensione del tempo:

Volevo camminare sopra i giorni

ancora non vissuti, immacolati,

sfiorandoli appena. Proseguire …

L’essenza del tempo è la futurità. L’estasi più importante delle tre: passato, presente e futuro, sintetizzate nelle tre facoltà agostiniane (memoria, intelligenza e attesa), è il futuro, il proiettarsi, o progettarsi heideggeriano nel contesto del gettamento esistenziale.

Non fu il caso a farci incontrare.

Il nostro incontro era deciso

nel destino di quei giorni di luce (p. 28).

Il caso non esiste. Chiamiamo caso colo ciò che non riusciamo a capire, ciò che vediamo in maniera confusa e oscura. Caso e causa provengono dalla stessa radice, come cosmo e caos.

 (Giuliano Ladolfi Editore) e il romanzo I sorrisi fraintesi dei ballerini (Fara Editore).

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Dialogando con il presunto “angelo caduto” di Giuseppe C. Airaghi
di Sergio Fabbri

Quanto segue, non intende essere un commento agli ispirati e ispiranti versi dal titolo Monologo dell’angelo caduto di Giuseppe C. Airaghi (Fara 2022). È, invece, il dialogo nato spontaneo leggendo quelle poesie, appunti rapidi e non ragionati riportati a matita a margine delle pagine. 
Omaggio a Win Wenders


… ma anche l’uomo è chiamato a uscire dalla propria condizione, cioè ad abiurare… perché interessa questa domanda? forse quando si fa una scelta del genere, si è disposti a non guardare più indietro: anche il pentimento può essere una tentazione…

Prologo

… ciò che è davvero “chiaro” non è “comprensibile” perché ancora stiamo ragionando e non ci arrendiamo all’evidenza… perché tendere a un “ritmo accettabile”? è giusto accontentarsi? probabilmente, è quella la funzione fondamentale delle parole (poetiche): condurre al “perdono” – ovviamente, è importante precisare di quale perdono si parla – parola tanto abusata quanto connaturata alla nostra essenza…

Prima parte

1

… è proprio così, cercare ovunque l’inizio del mondo! cosa è successo? è davvero questa la “vera” umanità? e se non di un risveglio alla triste realtà si tratta ma, viceversa, di un cedimento all’illusione che il mondo sia stato creato… imperfetto?

2

… forse da sempre (non soltanto a partire dai greci) pensiamo che la vita vera sia teatro e parliamo di rappresentazione e di protagonisti, come se fosse la salvezza… forse i miracoli non li pretendiamo più quando con meraviglia capiamo che la vita è un miracolo continuo…

3

… anche l’angelo soffre una dualità? e se l’angelo si fosse confuso? e se pensa che il bello dell’umano altro non sia in realtà che un… troppo umano, cioè già una deviazione dalla vera natura umana? davvero siamo uomini se lasciamo segni tangibili e, invece, non cerchiamo semplicemente di tornare a casa?

4

… sembra all’opposto che a parlare sia un uomo che si sforza di convincersi che non è possibile che in lui ci sia l’angelicum o, meglio ancora, il divinum…

5

… è proprio così (che l’angelo abbia rinunciato al tempo eterno)? esprimere giudizi è quello che l’essere umano fa abitualmente, ma non è l’unico atteggiamento possibile: al di là del giudizio si trova la chiave risolutiva: è come se l’angelo si creda innamorato delle qualità terrestri che non sono tra le migliori…

6

… talvolta si ha paura a nominare quello che si percepisce… c’è questa oscillazione tra un presente fatto di luci e ombre (in cui pare difficile scegliere un assetto definitivo) e un futuro a cui però non viene riconosciuta (per pudore? per vergogna?) alcuna dimensione escatologica, apocalittica… è come se la poesia ci sospendesse (o sorprendesse) eternamente in questa terra di mezzo…

7

… e nominandolo (il male) che cosa succede? e l’ingiusta condanna? davvero non tutto è perdonabile? considerato dove viviamo, avere indecisioni illegittime, è più che legittimo! magari il problema principale non sono i luoghi che scordiamo, quanto l’oblio costante di chi siamo…

8

… ma c’è un miracolo a cui non bisogna smettere di credere: l’incontro non atteso, l’evento apparentemente casuale di prossimità con l’Essere in cui siamo ciò che altrove non possiamo essere… ed è un miracolo non per la sua improbabilità, bensì perché, pur nella sua umile banalità, ci può condurre nel più alto dei cieli…

9

… questo è proprio – la gioia improvvisa e senza motivo – ciò che dovremmo osare chiamare con il suo vero nome: Spirito! poi ci possono essere “annunci” senza altra specificazione o notti non del tutto menzognere… ma perché pensare a parole senza ascoltatori, quando la parola è il segno originario che esistere è essere in relazione?

10

… l’idea che gli angeli non possano stupirsi è solo un nostro pregiudizio… è un inganno riuscitissimo del male quello per il quale il paradiso (terrestre o meno) era un luogo di noia e in fondo le imperfezioni sono il sale della vita… siamo noi a esserci autocondannati al ruolo passivo di spettatori paganti…

11

… è questo uno sguardo d’uomo o d’angelo? incantevoli versi rilkiani che portano ovunque…

Seconda parte

1

… se è vero come dice Bachelard che le parole poetiche hanno una natura ontologica, probabilmente è più suggestivo pensare che sono loro a spingere, a incoraggiare la mano nascosta…

2

… Cioran scrisse che uno dei vantaggi che invidiava ai credenti è la possibilità dell’eresia… forse dovremmo concederci un atteggiamento eretico in tutte le cose, anche le più banali, perché il dibattito  implacabile è la sola via certa che ci consente di cogliere dei bagliori di quel nucleo di verità che alberga dentro di noi… essere puro strumento non significa essere senza inventiva… il fatto è che nelle mani di Dio nessuno è un burattino – è il male a preferirci in questa veste, così come il potere… quello con Dio è un dialogo, Lui (ci) ascolta, perché non gli piace ascoltare dei semplici pappagalli…

3

… è questa la questione centrale: sapere dov’è la nostra casa e non sbagliare la strada che ci porta là… il difficile è che quei vuoti non sono mancanze, non sono nostalgie del passato: sono nostalgie di quello che, per una fatale distrazione, non abbiamo ancora vissuto…

4

… non esiste la solitudine – punto… si proietta sul passato il rimorso per come si è nel presente: per questo il nostro cuore resta in costante allarme… se la recita avesse un finale, si capirebbe che è una recita… salvezza è esattamente fuggire da quelle stanze, capire che non siamo di questo mondo…

5

… ma il fallimento è proprio smettere di leggere poesie, di scriverle, perché lì non c’è un obiettivo secondo i parametri consueti… poesia è un ritorno a casa che può essere ripetuto all’infinito, fino a quando si struttura in ricordo… rispetto a questo mondo, Gesù è stato inutile, ha fallito: ma qui sta la sua potenza, come nella parola poetica portata, soffiata dallo Spirito… da chi altro?

6

… ci si adegua agli equivoci quando si fa sentire la stanchezza dell’esistere… e quando ci adeguiamo, facciamo un torto maggiore all’altro o a noi stessi? un equivoco abbandonato a se stesso cresce per germinazione… in effetti, l’immensità della Creazione non è neutra – se è pacifica, vuol dire che agisce, dissolve tutti gli equivoci… l’equivoco ci fa perdere l’unico possibile senso di appartenenza…

7

… è divertente l’ambiguità di quel “parlar-si”, che quasi allude al fatto che un dialogo non c’è, che ognuno “si” parla (addosso), cioè continua a parlare con se stesso… un parlarsi che dovrebbe diventare un “parlar-ti”, finalmente… e, se “ti” parlo, vuol dire che sono stato in grado innanzi tutto di “ascoltar-ti”! rinunciare alle rinunce e, viceversa, accettare le scelte dell’altro…

8

… restare sé stessi (quello è ciò che determina la nostra coscienza, ci dicono, che ci dà consapevolezza)… eppure ritrovarsi così stranamente estranei quando ritroviamo oggettivizzati fuori di noi qualche nostro rimasuglio, qualche frammento di anima, che si rifiuta di rientrare in noi sotto forma di memoria… non è che magari siamo soprattutto quello che non siamo stati… mai?

… eppure, a cercare bene, il volo della trapezista rimane per sempre – c’è qualcuno che si diverte un mondo a farci credere che di noi niente dura… eppure, qualcuno scriveva: “ciò che dura fondano i poeti”, proprio come fa Airaghi…

10

… riscrivere: “il presente è un punto in continuo movimento, immenso”… perché mai “effimero”? a causa del limite umano di misurarlo, di attribuirgli una dimensione? non potrebbe essere che il punto ha, invece, infinite dimensioni che soltanto un Essere più grande di noi può cogliere nella sua infinitesima incoglibilità? nella Storia non ci sono omissioni – quelle sono di pertinenza delle storielle raccontate dall’uomo, dove sempre a svanire è il meglio dell’umanità…

11

… è questo, esattamente, il luogo da cui (ri)cominciare: un luogo senza ingombri, in cui tutto quello che da sempre ci ha allontanati dalla nostra autentica natura inizia a farsi da parte, a svanire, a diventare polvere, a perdere consistenza… è proprio così che si inizia, consapevolmente, smettendo di cercarsi in quello che non c’è più, che non c’è mai stato…

12

… come dire che il nostro primo nemico siamo noi stessi – e c’è solo un intermediario che può farci fare pace, perché un terzo io non è dato… ci si può davvero perdonare da soli? o ci perdoniamo unicamente quando ci sentiamo perdonati?

13

… si può restare qui per sempre, invischiati in una rappresentazione teatrale “senza finale”, appunto… patendo un complesso d’inferiorità frutto di travisamento: infatti, la vita non è sofferenza… un orizzonte degli eventi attorno al quale orbitare per sempre… oppure? L’“oppure” c’è – ed è grande come… una casa!

14

… e iniziare a porle queste domande, senza vergognarsi di nulla? non c’è altro modo per sconfiggere l’autunno perenne che accettare lo scorrere delle stagioni, affidandoci a tutte quelle domande che hanno risposte soltanto… nel cuore.

Certo è che questo angelo appare dubbio, dubbioso, dubitante… umano alquanto! Grazie, Giuseppe…

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Motivazione redatta dalla "Casa della poesia di Monza" relativa al Premio Morra assegnato a "L'insonnia di Persefone"

Il poeta e il mito. Sentono i poeti una fascinazione infinita per i miti antichi. Il loro valore
è molto più che iconico: sono narrazioni di archetipi sempre potenti, veri, umani e divini
insieme. Il nostro poeta riprende il tema dei misteri Elusini, ma in una chiave intrigante:
proietta nelle figure di Ade e Persefonel’intimità di una coppia di sposi contemporanei.
Ecco che il mito dell’Inverno che rapisce e tiene prigioniera la potenza generatrice della
Primavera diventa un epistolario in tre componimenti. Il poeta dà voce a una donna
consapevole di sé, della propria insoddisfazione, cui la routine pesa, il sesso non basta
più. La rinuncia e il distacco diventano l’estrema ribellione. Conoscere l’inverno è la
scelta finale, condivisa con la madre Demetra. Conoscere la neve, il silenzio, la
solitudine che prepara a nuove fioriture l’unica via possibile per una nuova vita.
Lettera di Persefone a Ade

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da Antologia TRANSITI POETICI Volume XXXV a cura di Giuseppe Vetromile sul poemetto "L'insonnia di Persefone"

L’insicurezza, o per meglio dire la consapevolezza di un diaframma sottile che separa
la realtà dalla possibilità di alternative più o meno complementari, sembra costituire la
tematica di fondo con la quale Giuseppe Carlo Airaghi, impegnato e prolifico poeta
milanese, tesse la sua tela poetica, arricchendola con indovinate metafore e richiami ai
miti classici. Si tratta dunque di una poesia del dubbio, che avvalora certe riflessioni,
certe ricerche intime sul senso della vita e che possono riassumersi proprio in questi
versi che l’autore ci propone, dove principalmente esplicita il malessere
dell’indecisione, il desiderio di lasciarsi andare seguendo la superficie della corrente,
fino ad arenarsi in un limbo pervaso, forse, da quella felicità e da quella pienezza e
certezza di vita cui tutti anelano.

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Nota di lettura di Fabrizio Bregoli a "La somma imperfetta delle parti"

“Questa nuova raccolta di Airaghi conferma la tipica cifra stilistica dell’autore: una poesia fortemente radicata nella quotidianità, nella frequentazione partecipata e assidua del mondo, ricorrendo a un linguaggio piano dal registro linguistico medio, tutto volto alla comunicazione senza derive auliche o intellettuali, nell’’idea di una poesia accessibile, a misura d’uomo. Nessuna invocazione alle muse “franate dai loro piedistalli”, allora, come sostiene ironicamente l’autore; ironia, presente qui e altrove, che è prova ulteriore dell’umanità che
muove questa scrittura, da un lato aperta alla pietas e dall’altro così concreta da evitare ogni compiacimento pietistico. L’esperienza quotidiana irrompe nei versi con spontaneità, ne plasma forma e contenuto, secondo un’impostazione etica che è prevalente, guida e unifica il disegno dell’opera, del resto particolarmente variegata, multicentrica si direbbe. 
Ecco allora uno stile unificante che con coerenza si propone narrativo, affabulatorio, con il ricorso a una sintassi articolata, a lunghe elencazioni, inserzioni dialogiche, riflessioni che si innestano sul vissuto: compito del verso spezzare questo flusso, a tratti anche magmatico, per porre in evidenza, offrire una luce di lettura, tentare conclusioni, certo mai definitive, ma
plausibili, magari limitate e circoscritte nello spazio e nel tempo, ma comunque alla ricerca di un senso, di un percorso rintracciabile.
Assume allora particolare rilevanza nell’architettura del libro il tema del cammino, a cui è dedicato “Il poema del cammino”, sezione finale della silloge, in cui l’autore, che già in una sezione precedente aveva tentato l’abbozzo di una “Autobiografia apocrifa”, si fa testimone oculare di un paesaggio tutto umano che viene attraversato, che incrocia la sua strada e chiede udienza, accoglienza. Aprirsi all’altro è l’unica scelta che evita all’individuo di scoprirsi “tentativo velleitario”, affetto da sordità e incapacità di comprendere il mondo, per quanto la realtà sia sempre frutto di una prospettiva limitata, parziale: “a questa infinitesima parte percepita / a questo parziale, risibile punto di vista / diamo il nome di realtà”. Airaghi denuncia così con obiettività e disincanto il continuo bisogno di autocompiacimento e di autoassoluzione che sono propri del nostro status di uomini, mai sufficientemente coraggiosi
nell’assunzione delle proprie responsabilità, nel confronto con la società a cui apparteniamo e con la storia da cui proveniamo, eppure è proprio qui che occorre affondare la lama, per capire “cosa manchi a questa mancanza”.
Se la somma è imperfetta per sua stessa natura – come recita il titolo della raccolta – ossia incapace di restituire l’interezza alla disgregazione delle sue parti, occorre però ricombinare i cocci, i frammenti, le macerie, nella necessità di restituzione di ciascuno di noi a un’umanità
più autentica, quella che può far dire a un uomo adulto di non avere delusioni o rimpianti rispetto al ragazzo che è stato. 
La poesia di Airaghi rifugge dalla tentazione edificante o apodittica, è consapevole del limite
di ogni voce poetica che decide di parlare in prima persona: si offre nudo sulla pagina, ma senza mai credersi un esempio né in positivo né in negativo (ulteriore stadio del compiacimento narcisistico); la sua è una voce intima, famigliare, che si rivolge al lettore come a un amico, a un compagno di viaggio. “Camminare e camminare ancora / è l’unico modo che ancora mi resta / per dichiararmi ancora vivo”.

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Nota di lettura di Renzo Montagnoli a "Monologo dell'angelo caduto"

Sono certo che Giuseppe Carlo Airaghi abbia tratto l’ispirazione per questo suo "Monologo dell’angelo caduto" dal film di Win Wenders "Il cielo sopra Berlino", in cui Damiel e Cassiel, due angeli invisibili a tutti, si aggirano per la capitale tedesca fino a quando il primo vede una trapezista e, poiché se ne innamora, si fa uomo e quindi mortale. Infatti non è un caso che l’io, più che narrante poetante, si chiami Damiel ed è pure lui un angelo che si innamora; troppe coincidenze che finiscono con dare credito alla mia ipotesi, peraltro avvalorata da quattro righe di introduzione e da successive illuminanti tracce. Tuttavia il richiamo al film non va oltre, perché l’opera in versi ha una sua autonomia che ne determina l’unicità. E’ poi particolarmente interessante il modo con cui l’autore si cala nei panni dell’angelo, per cui verrebbe da dire che per scrivere quest’opera da uomo si è fatto angelo (Ho barattato una immutata eternità // per la sete di un bacio ricambiato, / per un bicchiere di vino, per la curva / irripetibile di un collo di donna, // per pisciare sui cumuli di neve, / per imprimere la mia presenza, /Il mio segno tangibile nel mondo ). Se il modo interessa, il contenuto invece stupisce, perché questa creatura alata, caduta sulla terra e quindi fattasi mortale, mantiene ancora il privilegio di una visione celestiale di tutto ciò che incontra (Precipitato da una distanza di cielo / per accarezzare la curva che scende / tra il suo collo e la spalla. // Per capire cosa fosse la pelle / ho rinunciato al tempo eterno, / sono sceso a baciare la terra. // Da un bianco e nero manicheo / a una incredulità di colori / ancora tutti da nominare.// Ho risalito il fiume, raggiunto / la riva opposta per esprimere / finalmente un giudizio sul mondo. ). Fra l’altro questo straordinario protagonista rivela una simpatia del tutto particolare, vittima dei limiti dell’essere mortale, ma ancora capace di vedere oltre quelle nude immagini che si fissano nei suoi occhi (Non esiste solitudine senza eco. / Ovunque ci accompagna il rimorso / del passato oppure il rimpianto // che non dà meno dolore, il rombo / di un temporale lontano, un vento / che non sgombra il cielo in allarme. // Le sere d’inverno duravano anni, / troppo vaste per poterle varcare / senza pagarne il prezzo per intero. // Di molte sono stato spettatore. / Il tramonto era un sipario calato / sopra una recita senza finale. // Come spesso accade qualcuno balla / e qualcuno addossato alla parete / fissa un punto cieco nella stanza. // Con il bicchiere vuoto tra le mani. / La conversazione langue. Le cose / da dire hanno scarsa importanza. // Abbandonare la stanza è un’opzione / non contemplata dalle buone maniere. / A me parve non restasse altra scelta.).

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“Il mio segno tangibile nel mondo” di Alessandro Ramberti

prefazione a “Monologo dell’angelo caduto”

Così ho ascoltato, annotato / mi sono fatto puro
strumento, / senza inventiva, senza ragione. //
Alunno diligente che trascrive / il dettato com-
pitato, parola / per parola, sillaba per sillaba.
(parte seconda, 2)

Calarsi nei panni di un angelo e donargli parole di poesia è quanto fa Giuseppe Carlo in questa raccolta di immagini in versi pregne di vita. Le istantanee fotografano lo stato d’animo di chi si incontra (l’angelo è un custode che ci permette di vedere dall’alto e con una empatia sorprendente), di chi si sfiora anche solo per un attimo, scendendo nelle pieghe più intime di noi stessi grazie alla presenza dell’altro e/o della natura che si e ci rivela:

Ho barattato una immutata eternità // per la sete
di un bacio ricambiato, / per un bicchiere di vino,
per la curva / irripetibile di un collo di donna, //
per pisciare sui cumuli di neve, / per imprimere la
mia presenza, /Il mio segno tangibile nel mondo.
(parte prima, 3)

È tale l’empatia di Damiel che ci sentiamo facilmente trasportati nel suo mondo calato nel nostro, viaggiamo con lui, i suoi pensieri sono simili ai nostri, le sue emozioni sono le stesse che ci fanno vibrare, il suo sguardo ci fa considerare quanto sia preziosa la concretezza della realtà, quanto siano necessarie delle relazioni interpersonali e con l’ambiente rispettose e colme di attenzione (nel senso ricco che a questa parola dà Simone Weil), quanto la bellezza sia più etica che estetica, quanto la bontà (cioè il darsi gratuitamente perché facciamo traboccare in altri una misericordia che ci è stata donata con larghezza ) sia indispensabile per fare verità:

Eri chi temeva di dire a se stessa / che il sogno so-
gnato da sveglia / era l’annuncio di un desiderio,
// mentre pregavi che a una a una / le menzogne
della notte scomparissero / in una lenta dissol-
venza in controcampo. ( parte prima, 9)

Il tempo non va da nessuna parte, // non si arresta.
Il presente è un punto / in continuo movimento,
effimero / e immenso. Porta con sé l’universo.
(parte seconda, 10)

Lo stile di Airaghi ha un nitore che ci rimanda ai cieli e alle prospettive di Piero della Francesca, la forma esatta e luminosa del suo dettato varca il confine fra visibile e invisibile, fra “emozioni” angeliche ed umane. Così le inquadrature è come fossero sempre sul punto di muoversi, elasticamente soggette ai flussi e riflussi della realtà e del nostro sguardo che può focalizzarsi ora su un particolare, ora su un altro. È un stile sobrio che dilata la portata delle parole, ne alimenta la sonorità evocativa, rende possibile adeguare il loro ritmo al variare delle nostre pulsazioni cardiache. Provate voi stessi a rileggere, ad esempio, i versi che abbiamo citato e sentirete il vostro battito accelerare o decrescere mentre andate componendo il messaggio, mentre state mettendo a fuoco la scena che il poeta ci offre. Ecco un altro passaggio:

Non esiste solitudine senza eco. / Ov unque ci
accompagna il rimorso / del passato oppure il
rimpianto // che non dà meno dolore, il rombo
/ di un temporale lontano, un vento / che non
sgombra il cielo in allarme. ( parte seconda, 4)

Non ci resta che chiederci: che differenza c’è tra l'angelo e il poeta? non c’è forse in noi una creatività latente che ci porta oltre, ci fa vedere le cose con uno sguardo altro? non è forse vero che alcune persone si rivelano per noi essere degli angeli, dei messaggeri che sanno indicarci la via, suggerire azioni buone?
Cadiamo dunque assieme a Damiel, assieme a ogni voce poetica autentica. Cadere significa uscire da sé, sapere che, se esistiamo, è grazie ad altri, per chi crede grazie a un Creatore. Come viventi possiamo continuare ad esistere solo se in relazione con gli altri, con le cose, con il mondo. La nostra vita non si riduce a una serie di algoritmi ma è un tessuto di sensi e sentimenti, di organi e pensieri, di chimica e spirito in cerca di un'energia che si alimenta insieme, facendo rete con amore, con apertura, con attenzione.

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Dalla prefazione di Giuliano Ladolfi a "La somma imperfetta delle parti"

«Un totale che non basta»


Durante la lettura della raccolta delle poesie di Giuseppe Carlo Airaghi mi ha illuminato una frase di Simone Weil: «A pochissimi spiriti a dato scoprire che le cose e gli esseri esistono». A prima vista non si riesce a comprenderne la profondità, perché pare assurdo; se invece ci riflettiamo, concludiamo che la maggior parte degli esseri umani guarda ma non vede, ode ma non ascolta, percepisce ma non prova.

La cifra poetica di questi versi, nonostante l’autore si definisca

«Testimone inattendibile / della bellezza del mondo, inadatto /a goderla, inadatto a cantarla»

sta proprio in questo segreto: cogliere frammenti di esistente là dove difficilmente comunemente si giunge alla consapevolezza:

«i lampioni si mangiano stelle»;

«“Come se ci fosse la neve” dici / del silenzio che ci accoglie / scosceso, a precipizio sul mare»:

Quante volte di notte abbiamo sollevato lo sguardo in alto e abbiamo visto la stessa scena! Quante volte abbiamo

scorto la maestà del silenzio di un paesaggio! Queste sensazioni però non sono diventate parole.

La principale dote del poeta consiste proprio nell’affondare lo sguardo nella quotidianità dell’esistenza comune: i paesaggi sono quelli della città, la vita si svolge tra giornate, stagioni, ricorrenze, notizie,personaggi, eventi minimi tra condomini, alberi, voli di uccelli, risvegli, rappresentati talvolta con il fascino di Guido Gozzano:

«Ai marciapiedi di viale Rembrandt / non importa il fiorire dei sambuchi / ignorati, come ignorata è l’acqua delle rogge / di cui sembrano non avere sete».

La luce, poi, possiede un fascino sensuale («un corpo capace di riempire orizzonti»). L’autore sente che le cose inconsciamente tendono a un loro fine (i marciapiedi «conoscono il rumore dei tacchi / che non lasciano impronte»), come pure dà voce agli ultimi che non possono pagarsi il biglietto del treno. Avverte la contraddizione tra la fragilità dei ricoverati in ospedale e la sensazione di “immortalità” dei giovani che si trovano “fuori”.

Questo sguardo gli presenta una realtà che svanisce («Il mondo visto dal treno / è una realtà visitata di spalle»), priva di autentica consistenza (un mondo «corroso, consumato, /insospettabilmente fragile»),

difficile da decifrare («quale sia la consistenza vera / sospesa tra l’immanenza dei monti/ e l’evanescenza

delle nubi»), nonostante la sensazione di gravità della materia («È un inverno lombardo sfinito» e della routine quotidiana («Il mattino è una rassegnazione/ di fermate d’autobus e coincidenze»).

Airaghi non si presenta, però, al lettore come semplice decifratore – mansione già di per se stessa di grande valore – dell’esistente, ma si inoltra (Il poema del cammino) alle radici della problematica che lo induce a rilevare che «La somma imperfetta delle parti/ porta a un totale che non basta, / i miei malgrado/ non sono in grado di dire / cosa manchi a questa mancanza».

Un tale constatazione lo induce a un’ulteriore ricerca per scoprire la montaliana “maglia rotta nella rete”, ma non vi trova che incomprensibili contraddizioni («I gabbiani immobili / sull’onda del vento/ sembrano candidi aquiloni. In realtà / sono predatori da discarica, / senza scrupoli, senza vergo-

gna»; «In quanti modi può esprimersi Maggio / e rimanere inascoltato»). La fragilità («E in questa ignoranza accettata /scaldiamo il letto in comune»), la precarietà, le antinomie, la difficoltà di comprensione («a questa infinitesima parte percepita, / a questo parziale, risibile punto di vista / diamo il nome di realtà») sembrano governare il ritmo del

tempo e dello spazio, degli eventi e del flusso interiore («questo nido di paglia, / questo riparo di vento / che parrebbe non temere la notte»).

Giunto a questo punto del viaggio («In questa apparenza avanziamo»), l’io lirico, come homo viator («mi infilerò nella pretesa ottusa / di conoscere le risposte necessarie») rivolge l’attenzione a se stesso e vi coglie identica situazione: contraddizione («Perdermi o ritrovarmi / sono la medesima cosa»), precarietà («Il senso del precario è diventato sopportabile»), necessità di adattarsi al compromesso per sopravvivere («Tutta la verità non si può dire, / se si vuole sottrarsi al dolore»), paura di essere definito «tentativo velleitario», straniamento («Cantare canzoni / come fossero cantate da altre voci»), limite («di chi, / come me, / per l’ennesima

volta, / ha lasciato a casa l’ombrello»), ma anche barlume di speranza («nella cocciuta pretesa di rifiorire / a ogni nuova cocciuta primavera»). Non basta l’immaginazione («un altrove da immaginare oltre le alte siepi»), non bastano i ricordi («In ogni oggetto inanimato, in ogni corpo / dormiente sono

deposti ricordi in attesa / di vibrare allo sfioro che li convoca»), non basta neppure una sorte di rassegnata sconfitta («Agli altri non resta / che rassegnarsi a convivere / con le cicatrici, / con le piante

infestanti nell’orto / sul retro della casa..») ad aprire una vita di salvezza o di senso.

Uguali caratteristiche si trovano nella rappresentazione della società contemporanea, a partire dai falsi valori che proclama («Non resta che diventare

ricchi o accontentarsi, tra gli applausi, / delle briciole cadute dalla tovaglia» dopo inutili tentativi di «puntare sul tavolo l’asse di denari / necessario a raddrizzare la partita»), alla storia (25 Aprile), alla

difficoltà di relazione tra le persone («C’è sempre un eccetera in fondo alle parole / a evitare il punto a capo»), al mondo dell’informazione («Le menzogne

hanno ottime ragioni / per conformare i fatti alle teorie»).

Tra i diversi temi trattati particolare rilievo assume la riflessione sulla morte, che viene colta secondo due fondamentali modalità: il primo in rapporto alla continuazione della vita («Ritorneremo a un amore privo di rimorso, / a fischiettare cucinando il sugo»), pur all’interno di capitali domande di senso («con parole

semplici / che colpiscono a morte il bersaglio / mentre stappiamo un’altra bottiglia di vino»); il secondo

nel rapporto con l’Assoluto, sempre aperto, sempre

combattuto, mai appagato da risposte o da ragiona-

menti («A occhi aperti ogni mattina domandarsi / se

le preghiere dei sopravvissuti / siano state esaudite

oppure ignorate»).

Il poeta, pertanto, non esita ad affrontare, pur

nella quotidianità, tematiche assai complesse, nelle

quali getta un fascio di luce senza giungere a con-

clusioni, senza indulgere a facili moralismi, senza

pretendere di aver scorto la verità.

“Homo viator” lo abbiamo definito ed egli ne è consapevole al punto da dichiarare: «Camminare e camminare ancora / è l’unico modo che ancora mi resta

/ per dichiararmi ancora vivo», perché la vita non è

programmabile («Ogni accadimento di questa mattina / sarà quindi un imprevisto calcolato) e quindi

racchiusa o racchiudibile in formule o in algoritmi.

Sempre aperto alla scoperta («Nuovo Adamo: Voglio

oggi imparare i nomi degli alberi, /dei fiori al ciglio

della strada, dei venti»), traccia un provvisorio bilancio delle proprie scelte di vita e dei risultati in

modo contraddittorio come contraddittoria da lui è

stata trovata la realtà («al ragazzo che sono stato /

non sarebbe piaciuto l’adulto che sono»; «Malgrado

le reticenze il sole splende / sopra qualsiasi tumulto

del cuore, / sopra i transiti passeggeri delle nubi»).

Come si deduce da queste considerazioni la raccolta, strutturata in sei sezioni, presenta notevole compattezza di struttura e di ispirazione, sorretta da

uno stile personale dall’andamento desultorio. Lo stesso “fare poesia” è affrontato con il medesimo registro “umile”, preciso, puntuale, mai didattico o ragionativo, come pure mai disadorno, dal sapore

quotidiano («Sul bordo del canto si affacciano parole

/ simili al pane sulla tavola»), perché «le muse sono

franate dai loro piedistalli». Si avverte un tono confidenziale che fa risaltare la preziosità delle scoperte

condivise: «parole di circostanza che chiudano il periodo / dentro il recinto del proprio punto e a capo».

E questo rivela che si tratta di una scelta consapevole

e meditata.

Il titolo, La somma imperfetta delle parti, apre il campo a considerazioni di carattere filosofico e costituisce un e vero e proprio richiamo all’umiltà di

fronte agli odierni risultati portentosi della scienza, della tecnica e della comunicazione. Airaghi riprende in chiave contemporanea alcuni tratti del primo Decadentismo che sorse da un moto di sfiducia nella ragione come strumento di indagine del reale. Secondo il poeta, infatti, l’intelletto non solo non viene più ritenuto in grado di cogliere il noumeno, la cosa-in-sé, ma viene anche considerato responsabile di produrre l’illusione della conoscenza, con la conseguenza di distogliere dalla ricerca di una verità più profonda e di rendere paghi delle apparenze. Al di là degli schemi concettuali sta il mistero della vita che nessuno schema razionale può inquadrare. Questo, a mio parere, costituisce il messaggio fondamentale di questa raccolta poetica.

Giuliano Ladolfi

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Da "Bottega di poesia" su La Repubblica

Giuseppe Carlo Airaghi ragiona sull’esserci a partire da dettagli in apparenza irrilevanti, ma in realtà autentici e improvvisi rivelatori di senso.


Maurizio Cucchi da “La repubblica Milano” 18/01/21

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Dal sito "La dimora dello sguardo"

“É poesia conclusa, non lascia al lettore parole in ombra.
Si avverte che l’autore è acuto osservatore e la sua scrittura è attenta, anche quando si dilunga per timore di lasciare dietro qualcosa. A volte pesca dalla riva ma teme di tuffarsi lasciando che pochi versi affiorino a galla.
Trova l’inconscio senza arrivare a un corpo a corpo. Sa bene che la forza dell’Es sovverte ogni precauzione, ogni avvertenza ma salva l’imperfezione perché lo tiene in vita”.

Giancarlo Stoccoro 

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dal sito "Suite Italiana"

Un poetare semplice, discorsivo, che lambisce la canzone d'autore. Versi schiettamente consolatori, che schivano non solo la pretesa di durare (che non è la stessa cosa che effettivamente durare) ma anche ogni artificio, e si concedono dolci sottigliezze. Il tono meditativo e intimo rivela angoli di esperienza cui poeti più ambiziosi hanno pudore di guardare. [Giordano Tedoldi]

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a proposito de "Il poema del cammino"

Nel poemetto inedito in terzine ritmiche dal titolo “Poema del cammino” da cui abbiamo tratto queste tre poesie, Giuseppe Carlo Airaghi propone una visione fisica e spirituale delle cose attraverso un accorto e sincero uso del correlativo oggettivo. La natura assume le forme e le parvenze di un rispecchiamento dello stato d’animo che trapassa dal testo al lettore attraverso un significante composto da un ritmo morbido e ovattato del versificare che procede per immagini quiete, non disdegnando l’analogismo matematizzante, il pi greco che ritorna a collante di due testi su tre a sottintendere un preordinamento cosmico nella metafora fluviale dell’effimera transitorietà delle cose, chiave di volta della comprensione estetica dell’infinito, teorema supremo di una visione poetica del mondo. (Sonia Caporossi)

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La sincerità prima di tutto

Dopo molte sillogi la cui comprensione non è facile di primo acchito – e nemmeno ritornandole a leggere più volte – una raccolta di poesie che già al primo colpo riesca a instaurare con il lettore un filo di empatia, che da un lato deriva dalla semplicità dell’esposizione e dall’altro dai temi trattati (non argomenti di notevole difficoltà, ma la vita stessa in tutte le sue sfaccettature, nel bene così come nel male), è indubbiamente un biglietto da visita benaugurale. Di questo autore non avevo mai letto nulla e l’opportunità di conoscerlo deriva dalla sua partecipazione al concorso Faraexcelsior 2020 con questa silloge, classificatasi al secondo posto. Oltre alle caratteristiche che ho riscontrato e indicate sopra, c’è anche una spiccata sincerità, un fermo proposito di non nascondersi dietro un velo di pudore al fine proprio di spalancare il proprio animo come una finestra in primavera (Da Per scrivere poesie: “Per scrivere poesie sincere / è necessario essere innocenti / e spietati come bestie senza morale, / essere il morso che strappa la carne dall’osso, / il cane bastardo che non molla la presa, / che scava nel fango, / che porta alla luce la preda occultata. / … ”).

Non mi è mai piaciuto l’ermetismo per l’ermetismo, come bastasse solo scrivere versi pressoché incomprensibili per realizzare una bella poesia; al contrario, credo che invece sia importante che la comunicazione poeta-lettore sia la più diretta e semplice possibile, ed è quel che cerco di fare io, e che ad Airaghi è riuscito perfettamente. Un esempio? Eccolo: Nella luce d’autunno – “Nell’oro delle sere d’autunno, / nella loro simbologia fraintesa, / ci incamminiamo lungo il sentiero / che costeggia la roggia. / In faccia alla forza del sole che cala / non so dove poggiare lo sguardo / e il passo che non regge il fulgore. // Come renderti evidente questa luce, / condividere a parole il respiro / che mi illudo di avere compreso? / Ci abbaglia un riflesso che canta / tra i rami di questi alberi spogli, / tra queste foglie gialle, arrese / alla luce clemente di ottobre. // Ripeto parole che in fondo / conosco, capisco da sempre: / quanta bellezza concessa / a sorreggere il peso del mondo.”

In una descrizione che sembra uscita dalla tavolozza di un pittore, c’è l’intento di rendere partecipi delle spettacolo della natura chiunque si accosti a questi versi, con un sottofondo di tenera malinconia indotta dalla stagione e che sembra preludere a una visione serena del mondo, da sempre solcato da stagioni, come metaforicamente la vita stessa degli uomini.

Pur non risultando quest’opera un capolavoro (forse lo sarebbe stata se l’autore fosse sceso più in profondità) tuttavia, per l’immediatezza dell’esposizione, per la sincerità profusa, per l’indubbia capacità di ricreare ambienti e atmosfere Quello che ancora restava da dire è una raccolta in grado di dare ampia soddisfazione e piacere a chi legge, riuscendo anche a trasmettere quella serenità di cui è permeata.

(recensione di Renzo Montagnoli)

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Prefazione di Alessandro Ramberti a "Quello che ancora restava da dire"

Questa raccolta poetica si è classificata seconda al concorso Faraexcelsior 2020 ricevendo le seguenti motivazioni dai giurati Daniela Monreale e David Aguzzi: "In una versificazione che spazia dai toni solenni a quelli leggeri e descrittivi, queste poesie toccano i piccoli e i grandi temi della vita con un’attitudine sincera e diretta, spruzzata da sottile ironia, e con un’innocenza di fondo che rimanda a un archetipo infantile che qui viene custodito e preservato, come risorsa poetica ed esistenziale". (Daniela Monreale)
Una poesia avvolgente e spirituale. (David Aguzzi)

"Per scrivere poesie vere
non si potrà più mentire,
ci toccherà colpire,
svelare il sudario,
lacerare la benda
per mostrare la ferita
viva."
Chi scrive versi sa che non può fingere, può forse schermirsi, ricorrere a parabole, metafore, correlativi oggettivi… ma se desidera arrivare non può essere un mentitore. Lo stesso Pessoa, che si “distribuiva” in diverse personalità, restava coerente alla poetica di quell’autore e il suo eteronimo era comunque una (vera) parte di sé. I giurati che hanno votato questa raccolta ne hanno evidenziato la sincerità (Daniela Monreale) e l’avvolgente spiritualità (David Aguzzi)
e del resto l’onestà, la misericordia, l’umiltà e la fortezza sono componenti indispensabili di ogni cammino spirituale e di ogni poetica che non sia un mero esercizio di stile. Nella seconda parte di Per scrivere poesie, di cui abbiamo riportato un brano qui sopra, Giuseppe Airaghi confessa che questa propensione alla verità ha un costo:
"Se scrivessi davvero poesie sincere
sarei condannato alla solitudine,
bandito, messo all’indice,
scacciato oltre le mura della città,
nei boschi profondi dai quali
non sarei più in grado di tornare."
E allora il poeta dice di accontentarsi di versi “che non siano chiodi”… starà a chi li legge verificare se le cose stiano proprio così. In noi si sono fissate molte parole, molte immagini hanno suscitato emozioni profonde, perché la (vera) poesia è una radiografia dell’anima e chi la ama sa che a sua volta ne sarà commosso: non c’è forse empatia più alta di quella che si prova fra chi la crea e chi la fruisce. I sentimenti d’amore, i trasporti, le delusioni, le batoste, le sofferenze, gli ostacoli, la bellezza, la condivisone, l’amicizia, le domande ineludibili sono il tessuto vivente dell’esistenza che Airaghi ci offre con intensità, ricordandoci che sempre c’è un resto, un non detto, e così siamo implicitamente provocati a scendere in noi stessi, a dircelo (personalmente e reciprocamente) quando è bene farlo.
Ecco infine, per terminare questa breve prefazione, gli splendidi versi che chiudono La luce precede la pioggia, con l’invito a immergersi subito nelle pagine di questo taccuino poetico che faremo senz’altro nostro:
"e richiudevi per poco un libro
che avevi già letto in passato
e mi volgevi le palme aperte
su cui cadeva la luce
che assecondava la pioggia
e disponeva arcobaleni."


Dalla prefazione a "Ipoet Lieto Colle 2019"


Giuseppe Carlo Airaghi in barba alla centenaria disputa tra chi afferma l’impossibilità di una poesia narrativa e chi di fatto scrive romanzi in versi, afferma: “in ogni singola poesia tento di raccontare una storia (al netto delle divagazioni psicologiche e emotive nelle quali talvolta mi perdo e che rischiano di prendersi la scena) attraverso immagini il più chiare possibili e attraverso l’utilizzo di un io lirico che ambisce a essere voce di una esperienza collettiva e condivisibile”. Airaghi non tradisce le aspettative; la varietà dei luoghi lessicali ci suggerisce un approccio al verso semplice, quasi didascalico, passando dalla canzonatura ad un certo pessimismo nervoso di matrice forse tardo decadentista. Notevole la liaison agghiacciante tra due agenti di polizia nei intercettazione telefonica, una danza macabra nel luogo di un assassinio che ha lasciato l’amaro in bocca a tutti coloro i quali seguirono i fatti accaduti nei giorni del G8 a Genova: “La donna\(la immagino persino bella nel suo sorriso\e nella sua divisa d’ordinanza)\cinguettando disse:\“una zecca di meno, uno a zero per noi”.\I due danzavano tenendosi la mano\intorno ad un corpo coperto\da un telo insanguinato.”

Fabio Prestifilippo

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In bilico tra il fiume e l’inespresso. Musica e poesia di Giuseppe

Giuseppe Carlo Airaghi è un artista poliedrico. Oggi condividiamo con

piacere alcune delle poesie estratte da I quaderni dell’aspettativa

raccolta da lui pubblicata.

Semplici frammenti di vita emergono dai versi di questo artista; semplici ma

mai banali. Sono voci e al contempo riflessioni che spaziando tra temi come la

memoria storica o l’esistenza dell’individuo attraverso le quali l’autore mette in

risalto le contraddizioni che sono solite accompagnarci.

La scelta delle immagini e l’accuratezza delle parole contribuiscono a creare

atmosfere palpabili, a rivivere i colori di quanto narrato.

Se vi sentite da “una vita alla finestra” o in bilico tra l’essere o il sopravvivere come ne “Il

film della donna con il cappotto”, allora immergetevi in questo fiume e lasciatevi trasportare dalla corrente.

“Una vita alla finestra” è una canzone tratta dal suo album Tra il senso e la voce

(Acustico) che troverete disponibile all’interno del suo sito web.

recensione dal sito "Caratteri Ribelli

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Motivazione Premio Sinestetica

Riflessione sul tempo, sui percorsi di molteplici personaggi, lo sconosciuto conducente del tram, tra silenzi e traffico, o altri con “cappotti di luce”. Eppure nel caos dei sentimenti e del girovagare dei tanti rimane sempre la “foglia verde” come un passaporto verso un paesaggio sereno. Il sorriso di erba verde come un grido tenue di speranza.

motivazione con la quale la giuria del 3° Concorso Nazionale SINESTETICA ha conferito il 2° PREMIO sezione A, categoria 3 all'opera "LA FOGLIA VERDE"

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IL VOLO RADENTE DELLA POESIA LOMBARDA


Buona parte delle poesie comprese in questa raccolta sono in ultima analisi dei racconti in versi. Perché con tutta evidenza Airaghi è un narratore che ha dismesso la sacralità del poeta e si è fatto cronista del quotidiano, del familiare, di un'epica in minore accompagnata non dalla grancassa solenne del sentimentalismo e della retorica che dispensa consigli e regole di vita ma da una musicalità da camera che segue il ritmo del respiro e si pone continue domande usando un linguaggio comune e la precisione di uno stile personale. 

Una narrazione “poetica” fatta di storie che non sono mere impressioni di anime languide ma testimonianza, critica civile e autocritica personale di un Io che ride sulle proprie ipocrisie e lo fa senza auto assolversi. 

Un io privato che da voce ad un io collettivo, un'esperienza intima che si sovrappone alla storia con la esse maiuscola. 

Un io che trae la propria ispirazione dalle cose di tutti i giorni, dalla memoria e dalla consapevolezza della sua arbitrarietà, dalle situazioni più minute e apparentemente insignificanti e se ne vale per trasformarle in simboli, in immagini poetiche, in canto contemporaneo. 

Siamo di fronte a un poeta che attinge la propria linfa dalla realtà di tutti i giorni, dal quotidiano, e lo fa usando uno sguardo da entomologo e un linguaggio talvolta prosastico che rifugge l'enfasi quando non la utilizza ironicamente. 

Un linguaggio che spesso è il dialogo con un interlocutore, alcune volte identificato e chiamato per nome, altre volte indefinito e generale.

Dietro il suo apparente antilirismo (dove per lirismo intendiamo l'espressione sentimentale delle sensazioni e degli stati d'animo dell'autore) c'è l'utilizzo del correlativo oggettivo dove gli oggetti e le descrizioni definiscono gli stato d'animo. 

Dietro il suo ironico disincanto tutto lombardo non c'è pessimismo ne tanto meno rassegnazione. 

La sua ironia abbraccia le contraddizioni di un essere umano che sa di non essere ne eroe ne disertore all'interno di una vita non turbata da tragedie. 

Un'ironia che è forza vitale, che è consapevolezza della bellezza del mondo, che è il contrario della resa.

(Rino De Giovanni)

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RICONOSCIMENTI

  • Primo posto premio "Vito Moretti" 2023

https://www.premiovitomoretti.it/edizione2023.htm

  • Primo posto "Poesia Napoli 2022

https://www.guidaeditori.it/premio-poesia/

  • Terzo posto premio Isabella Morra Città di Monza

https://www.lacasadellapoesiadimonza.it/risultati-premio-di-poesia-isabella-morra-il-mio-mal-superbo-xii-edizione-2022/

  • Primo posto - Premio "Lago Gerundo" 2022.​

http://lagogerundo.comune.paullo.mi.it/vincitori-della-xx-edizione/

  • Primo posto - Premio “Città di Arcore” 2022

https://www.premioletterarioarcore.it/categorie-documenti/ottava-edizione/

  • Terzo classificato "Terre di Virgilio 2022"​

https://www.mantovapoesia.it/

  • Menzione d'onore "Premio Lorenzo Montano 2022"​

https://www.anteremedizioni.it/esiti_parziali_una_poesia_inedita

  • Finalista premio "POESIA A NAPOLI 2021"

http://www.guidaeditori.it/premio-poesia/

  • MENZIONE D'ONORE - Premio "Lorenzo Montano" 2021.

https://www.anteremedizioni.it/esiti_parziali_una_poesia_inedita_2021

  • MENZIONE DI MERITO - Premio “Silloge Transiti Poetici” 2021

https://transitipoetici.blogspot.com/2021/05/premio-silloge-transiti-poetici-i.html?showComment=1620124369640#c1240584140016848173

  • FINALISTA - Premio Letterario Il Giardino di Babuk – Proust en Italie. 2021

https://www.larecherche.it/premio.asp


  • SECONDO CLASSIFICATO - concorso Narrapoetando 2021

http://narrabilando.blogspot.com/2021/02/ecco-i-vincitori-del-concorso.html


  • MENZIONE SPECIALE  - Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio 2020

https://www.mantovapoesia.it/archivio-premio/


  • SECONDO CLASSIFICATO - Concorso Nazionale Sinestetica 2020

https://www.concorsosinestetica.it/premi-2020/


  • ATTESTATO DI MERITO – Premio Lorenzo Montano XXXIV Edizione 2020

https://www.anteremedizioni.it/?q=book/export/html/78


  • SECONDO CLASSIFICATO - premio Faraexcelsior 2020

https://farapoesia.blogspot.com/2020/10/pasqualone-e-airaghi-vincitori-con.html?fbclid=IwAR1gYf_WFmGLB17dFEfWZ48GKws6HSlpAAUXFSBh1sOi2rGwoEq2gGRynDI


  • SECONDO CLASSIFICATO - concorso poesia internazionale #RECITATIONES 2020

https://www.ilraccoglitore.com/2020/06/14/concorso-di-poesia-internazionale-recitationes-seconda-edizione-le-poesie-vincitrici/


  • PRIMO CLASSIFICATO - iPoet (Lietocolle) novembre 2019

http://www.lietocolle.com/2019/12/ipoet-novembre-2019-vince-giuseppe-airaghi/


  • SEGNALAZIONE - prima edizione concorso narrapoetando 2018

http://farapoesia.blogspot.com/2018/03/i-poeti-vincitori-della-prima-edizione.html

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